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Notizie dal Comune

AMARCORD TIFERNATE - LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE - STORIE, ANEDDOTI E RACCONTI LEGATI ALLA FIGURA DI RAFFAELLO NEL RACCONTO DI DINO MARINELLI
amacord tifernate
02.07.2018 -

Sono da più parti in cantiere le iniziative per celebrare degnamente la non lontana data del cinquecentenario della morte di Raffaello Sanzio. A chi avrà l’onere e l’onore di ricordare questa data a Città di Castello, dove l’urbinate mosse i primi passi da artista, raggiungendo il punto più alto della sua attività giovanile con la realizzazione dello “Sposalizio della Vergine”, auguriamo il successo che nel 1983 ottenne la mostra nella Pinacoteca tifernate dedicata a “Raffaello giovane”, promossa dal comune. Successo che valicò i confini regionali. Cogliamo l’occasione per intrufolarci nelle vicissitudini che hanno costellato lo “Sposalizio della Vergine” nella sua lunga e tormentata vita. Tutto ebbe inizio nel 1504, quando il quarantenne Filippo Albizzini, venditor panno rum lanae, commissionò al poco più che ventenne Raffaello Sanzio lo “Sposalizio” per l’altare della cappella di San Giuseppe, che gli Albizzini possedevano nella Chiesa di San Francesco. Il dipinto, secondo lo storico dell’arte Alessandro Marabottini, fu terminato durante l’estate di quell’anno: «perché è impensabile che Raffaello, disponendosi in autunno all’avventura fiorentina, si lasciasse alle spalle una simile opera incompiuta… ». Gli Albizzini, antico e potente casato tifernate, tenevano molto al loro altare. Chi meglio di questo giovane che in quegli anni aveva dato prova del suo genio pittoresco realizzando per le chiese tifernati lo  “Stendardo”, il “san Nicola”, la “Crocifissione”? Poi a quel tempo, diciamola tutta, l’urbinate non aveva eccessive pretese economiche, l’importanza per lui era di poter realizzare la propria personalità artistica. Altroché se la realizzò! Con questo dipinto aveva raggiunto la vetta più alta della sua prima gioventù. Passarono gli anni, Raffaello ormai era famoso come nessun altro. Chi aveva i mezzi economici avrebbe fatto carte false per possedere una sua opera. Fra questi anche Guidobaldo, il potente duca di Urbino, che aveva messo gli occhi proprio sullo “Sposalizio della Vergine”. Lo voleva a ogni costo, ma trovò solo rifiuti. Era il 1571 quando Guidobaldo si rivolse al vescovo di Cagli, Della Rovere, allora anche visitatore apostolico della diocesi di Città di Castello, affinché gli desse una mano per poter entrare in possesso del dipinto. Il prelato rispose al Duca con questa lettera evasiva: « Ho preso informazioni con il padre guardiano della Chiesa di San Francesco a proposito del quadro, quello che lo fece fare era degli Albizzini, tra le principali famiglie della città. Ho parlato con qualcuno di questo casato e mi ha detto che il loro parentesi chiamava Filippo e morì a più di ottanta anni vecchio, una trentina di anni fa. Lasciò un figlio di nome Sante, che morì ammazzato. Di lui restano due figlie, una morì non maritata, l’altra, l’erede, sposò Pompeo Tiberti…» Più o meno tutto qui l’aiuto del visitatore apostolico. E il potente Guidobaldo, duca d’Urbino, morì nel 1574, come si dice “a bocca asciutta”, senza poter mettere le mani sull’opera di Raffaello, che per quasi tre secoli rimase al sicuro nella cappella di San Giuseppe, nella Chiesa di San Francesco. Fino a quella notte del 13 gennaio 1798, quando, assieme alla neve, sull’onda lunga della rivoluzione francese, alla testa di una brigata cisalpina arrivò a Città di Castello il trentenne Giuseppe Lechi, generale di Brescia. Con sé aveva due suoi fratelli: Angelo, comandante di uno squadrone di ussari, e Teodoro, comandante di un battaglione di granatieri. Tutti e due amanti dell’arte, soprattutto quella pittorica del Rinascimento.

 


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